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COMUNITA’ PER MINORI, TRA PREGIUDIZI E FALSI MITI

A Piacenza esistono piccole ma fondamentali realtà educative, formate da giovani professionisti che hanno come obiettivo l’accoglienza di minori in difficoltà. Piccoli mondi, piccole comunità organizzate proprio come una famiglia, con gli stessi ritmi e gli stessi orari. Strutture che accolgono adolescenti a cui, per un determinato periodo, la famiglia di appartenenza non è in grado di badare. La comunità per minori K² è una di queste. Nata nel febbraio del 2014, può ospitare fino a otto minori e contare sulla professionalità e sulla competenza di sette educatori, una coordinatrice e una quindicina di preziosi volontari. Le fondatrici di K² sono tre giovani professioniste, Alessandra Tibollo, Paola Gemmi e Chiara Migliorini, che partendo dell’esperienza di Kairos servizi educativi, si sono specializzate sui minori per aprire la comunità K². Oggi ospita sette minori, ma in quasi due anni di attività di ragazzi ne sono passati tanti, con alle spalle le problematiche più disparate, dalle precarie condizioni socio economiche della famiglia, a problemi di dipendenze dei genitori. “Le comunità – spiega la coordinatrice Alessandra Tibollo – sono un periodo nella vita di un ragazzi, un accompagnamento. Non vogliono e non devono essere nè una soluzione permanente, nè la panacea di tutti i mali”. Nonostante il fondamentale contributo, attorno alle comunità che accolgono dai minori stranieri non accompagnati, che arrivano sul territorio quasi per caso, ai casi di allontanamento dalla famiglia per problematiche gravi, gravitano alcuni pregiudizi da sfatare. “L’intento della comunità è dare sollievo alla famiglia, darle il giusto tempo per risolvere i problemi. Ci sono innumerevoli studi che confermano che togliere il minore ad una situazione di difficoltà familiare è l’unico modo per risolvere il problema”. L’allontanamento temporaneo dal nucleo familiare che soffre di gravi problematiche, è l’unico modo per cercare di dare al minore il giusto equilibrio, di mantenere inalterate le abitudini, di tutelarlo anche e soprattutto da un punto di vista educativo. “Non siamo in collisione con la famiglia – spiega Tibollo – anzi siamo in costante contatto ed abbiamo instaurato un clima di fiducia reciproca. La comunità va considerata alla stregua di qualunque altro servizio in campo educativo”. Il modello educativo a cui si ispira la comunità, da cui è scaturita anche una pubblicazione, si concentra prima sulla conoscenza individuale del ragazzo, successivamente su un progetto educativo personalizzato, e infine sul gruppo in cui il minore è inserito. Lorenzo Saltarelli, operatore professionale della struttura, è entusiasta del suo lavoro: “a me piace vedere i cambiamenti dei ragazzi – ci ha detto – è il bello di questo lavoro; quando entri dal cancello non sai cosa ti aspetti e nel corso della loro permanenza c’è uno scambio reciproco che arricchisce sia loro che noi operatori”. Organizzativamente la comunità si regge sul lavoro degli operatori, con un rapporto di un educatore per quattro ragazzi. “Dobbiamo garantire un’assistenza puntuale h 24, 365 giorni all’anno. Qui non si chiude mai – spiega Chiara Migliorini – per cui il rapporto è di un operatore ogni quattro ragazzi, di notte ne resta solo uno, mentre un secondo è sempre reperibile”.

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