BUZZI UNICEM – CARBONEXT: DOVE E’ FINITA LA POLITICA? SE NE PARLA A TUTTO TONDO

Prima ancora che esplodesse sulla stampa la vicenda della Buzzi Unicem e del combustibile Carbonext erano già un caso. Un caso nel quale si intrecciano interessi economici e la salute dei cittadini. Da una parte ci sono le ragioni del cementificio, corredate da due conferenze dei servizi e da uno screening che confermerebbero la non pericolosità per la salute dell’utilizzo del combustibile, dall’altra la voce della gente, delle amministrazioni, peraltro divise a loro volta e dei medici che chiedono una valutazione dell’impatto sulla salute che potrebbe avere il Carbonext bruciato nel cementifico della val d’Arda. Ma il cammino sembra tortuoso e destinato ad arrestarsi.

Si chiamano celle aperte, spazi nei quali i detenuti sono liberi di nei corridoi della propria sezione. Come occupare questo tempo? L’ideale sarebbero percorsi strutturati che vanno dall’apprendimento di un mestiere alla scrittura, nella direzione di rielaborare l’esperienza della detenzione. Oggi al carcere delle Novate il vero problema non è più il sovraffollamento ma tenere occupati i detenuti. La rivista Sosta Forzata, che oggi rischia di essere sospesa nella pubblicazione, andava proprio in questa direzione.

Sentire parlare chi ha visto la morte accanto, giorno dopo giorno, fa sentire enormemente piccoli. Sentire il giornalista Domenico Quirico raccontare la sua esperienza nelle mani di jihadisti per 150 giorni, con estrema lucidità, fa capire, ancora di più, che la minaccia dell’isis rappresenta davvero il vero e unico male del mondo. Il Grande Califfato, il titolo del suo libro, è un progetto di espansione mondiale.
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CARCERE NOVATE: LA SFIDA E’ MOTIVARE I DETENUTI, “SOSTA FORZATA” E’ UN ESEMPIO

Il vero problema all’interno del carcere delle Novate non è più il sovraffollamento ma tenere occupati i detenuti, occupargli la giornata, dargli una motivazione. Un problema, per certi aspetti più difficile da risolvere, ora che il penitenziario piacentino si è dotato di un nuovo padiglione che può ospitare fino a 200 detenuti. Si chiamano celle aperte dove i detenuti sono liberi nei corridoi della propria sezione. Un’opportunità? Certo, a patto che sia ben sfruttata attraverso percorsi strutturati, più che semplici corsi di intrattenimento condotti da volontari, che possono andare dall’apprendere un mestiere fino alla scrittura, nella direzione di rielaborare l’esperienza della detenzione.

Arrivare alla consapevolezza di aver commesso un reato per il quale si stanno scontando anni di galera, per un detenuto, non è affatto scontato. E’ un punto d’arrivo al quale non tutti e non sempre si arriva, spesso con difficoltà. Il pentimento, ad esempio, è un percorso lungo, tortuoso. Il detenuto, la maggior parte della volte, pensa di essere dietro le sbarre ingiustamente, l’obiettivo è contare i giorni che mancano all’uscita premio o all’udienza per gli arresti domiciliari.

Il giornale Sosta Forzata, fin dalla sua prima uscita, è un laboratorio di scrittura, una possibilità per i detenuti di raccontare la loro esperienza e di assumersene la responsabilità. Su Sosta Forzata non si leggono notizie, ma vite intere, gioie, dolori, sofferenze ma anche speranze e obiettivi. Ad oggi Sosta Forzata rischia fortemente di essere sospeso nella pubblicazione.

Il servizio completo con l’intervista ad Alberto Gromi, Garante dei detenuti, sarà visibile nella prossima puntata di A Tutto Tondo 

Novate

COOP OPERAIO, LE PIANTE OFFICINALI COLTIVATE ALLE NOVATE

Terminate le pratiche burocratiche, autorizzazioni e permessi, il progetto finalmente è pronto a decollare tra un paio di settimane. La società cooperativa OperaIO formata da quattro giovani piacentini, poco meno che trentenni con esperienze e formazioni diverse tra loro, è pronta a mettere in campo il progetto di recupero e rieducazione rivolto a 12 detenuti del carcere delle Novate. In che modo? Insegnando loro la coltivazione di erbe officinali e piante da piccoli frutti per la produzione di prodotti erboristici e confetture all’interno delle mura del carcere. La direttrice della casa circondariale Caterina Zurlo si è dimostrata da subito entusiasta, scegliendo il progetto della coop operaio tra tanti altri. Gli obiettivi sono molteplici: valorizzare i detenuti attraverso l’esperienza lavorativa favorendo il reinserimento come forma di rieducazione e redenzione della pena; formazione professionale con il conseguimento di una qualifica; continuità dell’esperienza lavorativa anche all’esterno del carcere una volta che il soggetto ha scontato la pena; realizzazione di prodotti con marchio del carcere per arrivare alla produzione di confetture, tisane ed infusi. “Inizieremo con un percorso formativo, grazie al supporto di due docenti dell’Università Cattolica – ha spiegato Rachele Greco della coop OperaIO – poi andremo sul campo con la lavorazione vera e propria, in un percorso che durerà tre anni”. La scelta di lavorare con il carcere, spesso, è accompagnata da polemiche e perplessità. A parte le convinzioni e la formazione che ognuno possiede, è prima di tutto una questione di sicurezza: un detenuto che non trova nulla per cui valga la pena mettersi in gioco, una volta fuori delinque ancora, prova ne è che, oggi, la recidiva in Italia raggiunge il 98%. “Non è solo la questione di imparare un mestiere quella che ci interessa – spiega Rachele – ma anche offrire la possibilità al detenuto di prendere in mano la propria vita e ricostruirne i pezzi, laddove è possibile”. L’occasione per parlare del progetto è stata la serata organizzata dai volontari dell’associazione MondoMlal, la onlus che da anni è impegnata suol fronte boliviano con particolare interesse verso il modo della detenzione minorile. Idealmente si è voluto creare un ponte tra Bolivia e Piacenza nel segno del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti.

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COOP OPERAIO: QUANDO SI SCEGLIE DI PUNTARE SUGLI ULTIMI

Investire sul carcere è una scelta difficile, soprattutto se a farlo sono quattro giovani soci. Ci hanno provato, una scommessa forti dell’efficacia del loro progetto. Nell’agosto scorso, Rachele Greco, Filippo Politi, Marco Piccoli e Andrea Colonna si sono costituti in una società cooperativa “OperaIO” per avviare un progetto di rieducazione all’interno del carcere delle Novate. La loro formazione è variegata: scienze della formazione, giurisprudenza, agraria ed economia, si sono messi insieme perchè hanno condiviso un’idea. Rachele ha già fatto alcune esperienze formative negli istituti penitenziari di San Vittore e a Padova, “ogni volta che entravo nelle carceri, uscivo diversa e lo raccontavo ai miei amici che oggi sono i miei soci – racconta – anche loro sono rimasti colpiti dai racconti, così abbiamo pensato a come dar forma al progetto di lavorare con i detenuti. Abbiamo preso contatti con la direttrice del carcere di Piacenza, Caterina Zurlo, che si è dimostrata molto disponibile ed entusiasta della nostra idea”. L’idea è quella di insegnare ai detenuti a coltivare le piante officinali e piante da piccoli frutti per la produzione di prodotti erboristici e confetture all’interno delle mura del carcere.  “Il progetto ha quattro obiettivi – spiega Rachele – valorizzare i detenuti considerandoli una risorsa e non un problema per la società attraverso l’esperienza lavorativa favorendo il reinserimento come forma di rieducazione e redenzione della pena; formazione professionale con il conseguimento di una qualifica; continuità dell’esperienza lavorativa anche all’esterno del carcere una volta che il soggetto ha scontato la pena; realizzazione di prodotti con marchio del carcere per arrivare alla produzione di confetture, tisane ed infusi”. Un percorso rieducativo che può portare i detenuti a considerarsi lavoratori infondendo loro fiducia nelle loro capacità. “Dopo la formazione – spiega Rachele – cambia il modo di comportarsi dello stesso carcerato, spesso c’è il desiderio di ricontattare la famiglia, perchè si sentono capaci di offrire qualcosa, migliori”. La scelta di lavorare di e con il carcere, spesso, è accompagnata da polemiche e perplessità. “A parte le convinzioni e la formazione che ognuno di noi possiede – risponde – è prima di tutto una questione di sicurezza: se un detenuto non trova nulla per cui valga la pena mettersi in gioco, una volta fuori delinque ancora. La recidiva in Italia raggiunge il 98%. Se si impara un lavoro invece ci si riscopre e quando si esce ci si può proporre con una qualifica professionale. Poi c’è una motivazione che ci spinge di carattere personale – continua Rachele – chi sbaglia ha il diritto di riprovarci, ci vuole un’altra possibilità. Ho incontrato persone con una creatività che sarebbe stato un peccato non valorizzare”. A novembre partiranno i corsi con 12 detenuti maschi.

Dopo il concerto di musica irlandese al teatro Verdi di Castel San Giovanni, ci sono in programma altre iniziative di autofinanziamento, come un aperitivo con la degustazione di vini abbinati alla musica.

rachele