Un mese. Trenta giorni fa è cominciato un incubo, il peggiore per noi, almeno per i tanti che non hanno vissuto la guerra. Perché è così che sta accandendo, stiamo combattendo contro un nemico non composto da carri armati o bombe ma piccolissimo, invisibile e letale. Un virus che si attacca, fatica a morire e fa morti. Tanti, troppi, soprattutto nella nostra regione che con la lombardia è tra le più falcidiate d’italia. 24,27, 29 morti in un giorno solo a Piacenza. Roba da brividi. Da non capacitarsi, che se ci si pensa sembra impossibile.
Ma la testa ci sbatte contro questa realtà, e viene da piangere a pensare a chi non c’è più, a chi ha combattuto e non ce l’ha fatta, soprattutto gli anziani, padri e madri di figli ormai grandi, ma mai abbastanza per non avere più bisogno di loro.
Questo è il risvolto più straziante: sapere di avere un parente in ospedale e non poterci parlare, vederlo, toccarlo, amarlo, stargli vicino come richiede una malattia. Neppure quando gli occhi ormai sono chiusi e non possono più vedere. Nessun funerale, solo la sepoltura al cimitero “in ottemperanza alle normative vigenti”.
Ci cambierà, eccome se ci cambierà, tutto questo, c’è da giurarlo. Quando finirà e non tra breve. Questa è un’altra delle cose che più angoscia:il non sapere la fine, ci si sente soffocare, oppressi, schiacciati. E allora si guarda il cielo, azzurro, terso in questi giorni cristallini, limpidi. La natura si risveglia, le temperature si scaldano. L’unica a non accorgersi della guerra intorno è proprio lei, la natura, il paesaggio va avanti e rinasce in una nuova primavera, come ci ricorda il calendario. Perché il tempo passa, in questo periodo lento, diluito, trasformato.
L’unica speranza è che ci sia, anche per noi, un nuovo risveglio.