I virologi più cauti lo cauti le avevano detto: il covid non andrà in vacanza neppure nei mesi più caldi. Magari avrà allentato un pò la presa, per fortuna, ma resterà tutt’altro che sottotraccia. Il rialzo delle temperature pare non influire per niente: se così fosse stato non si sarebbero registrati, negli ultimi giorni, oltre 350 contagi in 24 ore in Italia, più o meno in tutte le regioni. Tanto che l’Istituto Superiore di Sanità parla di “trasmissione diffusa” pur in presenza di numeri “contenuti” rispetto a tre mesi fa. In otto regioni l’indice Rt è superiore a 1, la soglia di sicurezza. A pesare sono i 736 cluster del Paese, 123 dei quali recenti.Il fattore caldo/temperature in aumento c’entra poco o nulla.
Cosa è allora che ha portato a questi numeri che seppur non allarmanti possono diventare preoccupanti? Le maglie delle restrizioni che si sono allargate? Di fatto oggi sono tre i comportamenti a cui ci dovremmo attenere fuori casa: lavaggio accurato e frequente delle mani, mascherina e distanziamento. Forse è proprio qui che sta il nodo. Questi tre “modus vivendi” non sono ancora entrati nella quotidianità d tutti, o meglio, forse lo erano ma una sorta di refrattarietà ha dominato. Anche casi eccellenti ce lo hanno dimostrato, esponenti politici compresi.
L’Università Cattolica ha pubblicato uno studio, attraverso il centro di ricerca EngageMinds-HUB, che rivela la difficoltà di molti italiani, in particolare giovani e laureati, più uomini che donne, ad adattarsi alla nuova normalità subentrata dopo la pandemia da Covid-19. Quattro italiani su dieci sono refrattari a rispettare le regole post Covid.
«Ben più di un terzo della popolazione italiana, il 38% per la precisione, trova molto difficile cambiare le proprie abitudini di vita, anche se in gioco c’è la tutela dalla pandemia». Con queste parole la professoressa Guendalina Graffigna, docente di Psicologia dei consumi della facoltà di Scienze agrarie alimentari e ambientali e direttore del centro di ricerca EngageMinds HUB, sintetizza la problematicità dell’adattamento della popolazione alle regole ancora necessarie dopo la Fase 1 e la Fase 2 dell’emergenza da Covid-19: indossare la mascherina, igienizzarsi spesso le mani e rispettare il cosiddetto distanziamento sociale.
Lo studio è stato effettuato su un campione di 1000 italiani rappresentativo della popolazione italiana: la difficoltà ad adeguare le proprie abitudini alla nuova normalità imposta dalla convivenza con il nuovo coronavirus è sentita maggiormente dagli uomini (43% contro il 38% medio complessivo), soprattutto se giovani (44% nella fascia tra i 18 e i 34 anni), residenti al sud e nelle isole (42%) e con un reddito di livello medio (47%). E tra coloro che vantano un titolo di studio elevato (laurea o oltre), la quota di italiani “in difficoltà” sale al 49%4.
La ricerca dell’EngageMinds HUB ha incrociato il dato di base con altri fattori psicologici. Coloro che percepiscono un rischio di contagio da Covid-19 elevato mostrano maggiore problematicità ad adattarsi alle misure di comportamento contro la pandemia rispetto alla popolazione generale, tanto che alla domanda “Sarà molto difficile per me cambiare le mie abitudini di vita durante la Fase 3?” rispondono “abbastanza vero” o “totalmente vero” il 47% degli intervistati» – precisa Graffigna.
A fare la differenza è il livello di coinvolgimenti psicologico delle persone nella prevenzione: secondo lo studio, coloro che risultano avere un alto livello di “patient engagement” percepiscono il cambiamento delle proprie abitudini di vita nel corso di questa Fase 3 come meno difficile rispetto alla popolazione generale, mentre coloro che sono in una posizione di basso coinvolgimento percepiscono più difficoltà nel cambiamento.
Il discorso legato alla comunicazione svolge un ruolo fondamentale:”il processo di educazione e sensibilizzazione è molto più complesso sul piano emotivo e psicologico, soprattutto per le fasce della popolazione più giovani e culturalmente più evolute – spiega Graffigna –spaventare o assumere toni troppo punitivi e severi può generare l’effetto opposto, di chiusura e di disattenzione verso il comportamento preventivo predicato. Al contrario veicolare una comunicazione valorizzante la possibilità delle persone di diventare protagoniste nella gestione della propria salute e che coltivi il loro coinvolgimento attivo nella prevenzione, può risultare più efficace», conclude Graffigna.